Il pugno duro della giustizia con i minori


Dopo Erika e Omar, anche Nico, Nicola e Matteo, gli autori dell'omicidio di Desirée, hanno ottenuto una condanna esemplare. Il termine non è casuale. La precocizzazione del crimine, che sembra una conseguenza della precocizzazione dello sviluppo adolescenziale e dell'assunzione mimetica da parte dei minori di stili di vita e di comportamenti un tempo riservati agli adulti, è un fenomeno che desta grande preoccupazione in tutti i paesi occidentali, e mette a dura prova la giustizia.

La giustizia, come noto, è una delle istituzioni che si sono fatte carico di mediare il conflitto permanente tra diritti individuali e diritti collettivi alla luce di codici storicamente e culturalmente determinati. A differenza dei codici religiosi, e ovviamente laddove non si dia identificazione tra di essi, i codici giuridici assumono quel conflitto come tale da non comportare una soluzione definitiva e ottimale. Essi pertanto evolvono, sia dal punto di vista legislativo che interpretativo, in rapporto all'evoluzione sociale. Fino a qualche anno fa, la legislazione minorile si atteneva al principio implicito di considerare comunque l'età come un fattore attenuante, che riduceva, senza azzerarla, la responsabilità individuale. Si dava insomma per scontato che la personalità del minore, poco strutturata e ancora molto influenzabile, rappresentasse un fattore di cui non si poteva non tenere conto nel valutare il crimine e nel comminare la pena.

Da qualche anno a questa parte, l'orientamento della giustizia è cambiato. A livello legislativo, sono state avanzate numerose proposte rivolte sia a portare a dodici anni il limite al di là del quale si dà l'imputabilità sia ad inaspire le pene. A livello di pratica giudiziaria, come attestano tra l'altro i due casi citati, i giudici sembrano rivolti a valutare sempre più l'oggettività del reato e i diritti dei parenti delle vittime. Ciò comporta il fatto che, ad eccezione dei casi in cui è manifesta l'incapacità di intendere e di volere, le pene vengono comminate in misura massimale. La responsabilità oggettiva, in breve, viene privilegiata rispetto all'età, alla personalità minorile e ai fattori ambientali.

Questo cambiamento può essere agevolmente intepretato da un punto di vista storico. Basta leggere uno dei più noti manuali di Criminologia (per esempio quello del Ponti) per rendersene conto. Esso, nell'ultima edizione, si articola su di un basso costante: la contestazione dell'approccio psicosociologico (se non addirittura politico) al fenomeno criminale proprio degli anni '70 e il rilievo del sostanziale fallimento dell'orientamento riabilitativo ad esso conseguente. Su questo basso costante campeggia il riferimento alla responsabilità individuale come nodo essenziale della pratica giudiziaria. L'imprescindibilità di tale riferimento si fonda su di un'argomentazione di maniera: quella per cui, se non esiste una predisposizione genetica certa alla criminalità, nessun ambiente e nessuna carriera di vita, per quanto possa favorirlo, determina il comportamento criminale. Questo, dunque, eccezion fatta per condizioni di malattia mentale che limitano o azzerano la capacità d'intendere e di volere, è sempre e comunque riconducibile ad una scelta libera operata dal soggetto tra commettere e non commettere il crimine.

Dato questo presupposto, il tema della criminalità minorile viene piuttosto semplificato. Si riconosce infatti che il minore, per l'immaturità della personalità e le influenze ambientali, è esposto più dell'adulto a tentazioni devianti. Se egli però è in grado di distinguere tra il bene e il male, tra ciò che la legge consente e ciò che vieta, e se, nel momento in cui delinque, ha la consapevolezza di commettere un crimine, di violare la legge, la sanzione penale può essere applicata in maniera massimale.

Si tratta di un problema di grande portata. Per un verso, infatti, laddove il crimine minorile giunge all'omicidio, il non tenere conto dei diritti della vittima e dei suoi parenti ad una giusta sanzione sommuove un risentimento di ordine morale prima ancora che giuridico. Per un altro verso, l'identificazione della responsabilità oggettiva con la libertà di scelta e la consapevolezza del carattere criminoso del comportamento sembrano criteri piuttosto riduttivi. La libertà di scelta e la consapevolezza attengono la sfera della coscienza, che indubbiamente ha un peso nella regolazione e nell'inibizione del comportamento. La sfera della coscienza, però, non esaurisce la totalità dell'esperienza soggettiva. Esiste anche l'inconscio, vale a dire un'altra mente rispetto a quella cosciente laddove scorrono pensieri, emozioni e motivazioni complesse il cui controllo non è che precariamente assicurato dalla coscienza. Se questo è vero per l'adulto, lo è a maggior ragione per un minore. Ora, la possibilità che l'inconscio spinga ad agire dei comportamenti criminali nonostante la coscienza si renda conto della loro valenza illegale sussiste indipendentemente da una qualunque malattia mentale. Non tenere in alcun conto questo aspetto sembra piuttosto una regressione che non un progresso sul piano giudiziario.

Il problema evidentemente è che tenerne conto non è affatto semplice. Le perizie che spesso vengono effettuate su richiesta dei giudici o degli avvocati difemsori vertono univocamente sulla capacità di intendere e di volere nel momento in cui l'atto criminoso viene commesso. Esse trascurano il fatto che, anche in presenza di tale capacità, l'atto criminoso può essere commesso in nome di spinte motivazionali che sono del tutto al di fuori del controllo della coscienza. Questa circostanza, tra l'altro, ha poco a che vedere con il raptus di follia: essa infatti si realizza in uno stato di piena lucidità mentale.

Il nodo gordiano da tagliare concerne la necessità di superare le categorie nosografiche proprie della psichiatria nel nome di un'analisi psicodinamica della personalità. A tal fine, però, occorrerebbe una teoria di riferimento della personalità che le scienze psicologiche non sono riuscite sinora a mettere a fuoco, a convalidare e a rendere credibile.

Il problema è reso ancora più complesso dal fatto che, com'è accaduto sia nel caso di Erika e Omar che di Nico e dei suoi complici, i minori autori di gravi delitti sempre più spesso assumono un atteggiamento sorprendente e irritante. Essi si preoccupano anzitutto di depistare gli inquirenti e di negare gli addebiti, e sembrano letteralmente incapaci di esprimere un autentico pentimento nei confronti della vittima e dei parenti. Alcuni tentativi maldestri operati in questo senso, su consiglio degli avvocati, suonano come tardivi e spesso falsi. Come spiegare questo mistero, che sembra quasi confermare una natura criminale?

Per un aspetto, sia nel caso di Erika che di Nico, occorre ricondursi ad una maschera di durezza e di insensibilità assunta già in precedenza al delitto che i soggetti sembrano coltivare come se essa s'identificasse con la loro identità e dalla quale stentano a spogliarsi. Per un altro aspetto, di ordine più generale, c'è da pensare che incida una confusione tra l'avere le proprie ragioni per avere commesso il crimine - ragioni che spesso risiedono a livello inconscio - e l'assunzione inconsapevole di tali ragioni come giustificazioni. Erika si è giustificata asserendo che la madre le rendeva la vita impossibile. C'è del vero considerando il perfezionismo e il rigorismo morale della povera madre. Ma Erika è ben lontana dal capire che il perfezionismo e il rigorismo morale intanto impediscono di vivere in quanto sono interiorizzati. Nico ha addotto come giustificazione il tradimento di Desiréee, vale a dire il fatto che, dopo essere stata sua unica amica, essa ha preso come gli altri a rifiutarlo e a disprezzarlo. La povera Desirée sicuramente ha cambiato atteggiamento nei confronti di Nico via via che questi ha esibito un comportamento sociale sempre più rozzo, provocatorio e violento. Nico però ignora che il venire meno dell'unica fonte sociale di conferma di cui disponeva, quella assicurata dall'amicizia con Desirée, intanto ha avuto degli effetti soggettivamente catastrofici, che lo hanno spinto a viverla come una nemica meritevole di un'atroce punizione, in quanto egli alberga un'immagine interna di sé carica di disvalore e di disprezzo.

Il pugno duro della giustizia nei confronti dei minori può sicuramente corrispondere al bisogno di giustizia dei parenti e al bisogno dell'opinione pubblica di essere rassicurata sul controllo sociale dei comportamenti minorili devianti. Esso però, se risolve un problema, ne apre un altro. Attenendosi ad un principio di rigore, la giustizia assume il comportamento criminoso minorile come una variabile dipendente unicamente dalla gestione della libertà individuale, posto che essa coincida con la capacità di distinguere tra il bene e il male. Con questa opzione, la giustizia semplifica arbitrariamente un problema infinitamente più complesso nel quale i fattori ambientali e quelli psicosociologici incidono più di quanto si intende riconoscere.

Il codice penale, in quanto codice culturale storicamente determinato, non sarà mai un sistema perfetto. Di più e di meglio però si può e si deve fare. In particolare, occorre riaprire, soprattutto a livello di crimini minorili, un discorso sulle variabili che incidono nell'evoluzione e nella strutturazione della personalità che è francamente ridicolo ridurre al livello della libera scelta tra il bene e il male, nonostante questo criterio possa essere ritenuto giustamente importante.